Amare, voce del verbo “dare”

Gesù passava di villaggio in villaggio senza sosta, parlava alle folle del Regno e guariva quanti avevano bisogno di cure. Movimenti che dovrebbero ritrovarsi nella vita di ogni vero discepolo di Gesù: andare incontro, incamminarci verso ogni volto il Signore ci mette a fianco e guarire tutto ciò che di malato c’è nella nostra anima. Gesù parlava del Regno, annunciava la buona notizia che Dio è vicino, con amore.

E guariva. Il Vangelo trabocca di miracoli. Gesù tocca la carne dei poveri, ed ecco che “la carne guarita, occhi nuovi che si incantano di luce, un paralitico che danza nel sole con il suo lettuccio, diventano come il laboratorio del regno di Dio, il collaudo di un mondo nuovo, guarito, liberato, respirante”. E la folla di cinquemila persone resta incantata dalla bellezza di questo progetto che Gesù propone, un sogno di vita nuova e diversa. Gesù sapeva attrarre una folla facendogli dimenticare la fame. Come siamo lontani oggi dalla energia vitale che Cristo sapeva trasmettere, noi annoiamo con le nostre parole impolverate di abitudine, ci annoiamo, riusciamo perfino a sbadigliare impigriti d’innanzi al prodigio meraviglioso e infinitamente bello del pane vivo, spezzato per noi: Gesù presente nell’Eucarestia!
Alla richiesta sollecita dei discepoli, che sono preoccupati che tanta gente non ha ancora preso cibo per seguire il Maestro, Gesù rimette nelle loro mani la richiesta d’intervento: “Date loro voi stessi da mangiare”. Un verbo semplice, asciutto, pratico: date. Nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con un altro verbo concreto, fattivo, di mani: dare. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” (Gv 3,16). “Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). L’Amore è concretezza, si vede, si sente, si tocca. Rimangono sempre poco evangeliche le forme vane e indefinite di un bene sempre molto campato per aria e che non profuma di concretezza!
Gli apostoli non possono, non sono in grado, hanno soltanto cinque pani, un pane per ogni mille persone: è poco, quasi niente. Ma la sorpresa di quella sera è che poco pane condiviso, che passa di mano in mano, diventa sufficiente; che la fine della fame non consiste nel mangiare da solo, voracemente, il proprio pane, ma nel condividerlo, spartendo il poco che hai: due pesci, il bicchiere d’acqua fresca, olio e vino sulle ferite, un po’ di tempo e un po’ di cuore. La vita risplende solo se se sai donarti.
“Tutti mangiarono a sazietà”. Mi prende questa espressione di Vangelo. Lo sento come un monito verso quanti vorrebbero fare della Chiesa e della Comunità cristiana un recinto chiuso, un manipolo esclusivo ed escludente. Anche Papa Francesco ce lo ricorda quando dice: “L’Eucarestia non è un premio per i perfetti”. Il Papa Ribadisce di preferire una Chiesa “ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa… preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti.” Se qualcosa deve santamente inquietarci è che tanti nostri fratelli vivono senza l’amicizia di Gesù.
Quel “tutti” è importante. Sono bambini, donne, uomini. Sono santi e peccatori, sinceri o bugiardi, nessuno escluso, donne di Samaria con cinque mariti e altrettanti divorzi. Nessuno escluso. Pura grazia. È volontà di Dio che la Chiesa sia così: capace di insegnare, guarire, dare, saziare, accogliere senza escludere nessuno.
Apriamo il cuore per divenire strumenti del Signore ed edificare una Comunità cristiana capace di accogliere, di condividere, combattendo ogni tentazione di chiusura.